L’ultima lezione (e la prima della vita)
Una storia che ritorna quando la procrastinazione si traveste da prudenza. E ci ricorda che vivere non è aspettare, ma manifestarsi.
Non so bene perché, ma la storia di Randy Pausch torna a trovarmi ogni volta che parlo con qualcuno che stimo. Succede così: sto ascoltando, siamo immersi in una conversazione vera, intensa, e qualcosa dentro di me inizia a vibrare. Percepisco quella combinazione sottile e spesso contraddittoria tra la lucidità di chi ha consapevolezza e l’ombra silenziosa di chi, nonostante tutto, rimanda. Rimanda un gesto, una scelta, una voce. Rimanda se stesso.
È in quei momenti che in ricordo della biografia di Randy riaffiora. Non come esempio da portare a forza nel discorso, ma come eco naturale di una memoria che sa quando vale la pena tornare.
L’ultima volta è successo qualche sera fa, passeggiando con un amico per le vie di Firenze, nella luce dorata che solo le pietre antiche sanno restituire. Tra palazzi carichi di storia e vicoli che odorano di tempo, le parole fluivano sincere. Lui parlava di progetti, di sogni, di tutto quello che “appena finisce questa fase, ci metto mano davvero”. Ed è lì che nella mia testa, senza preavviso, è tornato Randy.
Era un professore di informatica, stimato, appassionato. Un marito, un padre. Uno che nella vita non insegnava solo codice, ma il modo per credere nei sogni. Fino al giorno in cui un tumore al pancreas gli ricordò che il tempo non fa sconti. Ma invece di farsi travolgere, salì su un palco e tenne una lezione destinata a rimanere. Non parlò della morte. Parlò della vita.
Di come si affronta il conto alla rovescia non con paura, ma con significato. Di come si trasforma l’addio in un’eredità emotiva.
Avevo letto il suo libro, L’ultima lezione, circa sette anni fa. Era estate, una di quelle in cui l’afa toglie il respiro. Decisi di fermarmi, parcheggiando il camper in una pineta lungo la costa Toscana. Seduto all’esterno, con i piedi scalzi sull’erba fresca, respiravo l’ombra profumata dei pini.
Accanto a me, Frida e Paride. Lei immobile, vigile, lui sdraiato con la palla tra i denti, pronto a ogni stimolo. Il canto delle cicale faceva da sfondo a quel silenzio sacro in cui il mondo smette di pretendere. E io, in quella quiete, aprii il libro.
Non fu solo una lettura. Fu un incontro.
Randy non si chiedeva “perché proprio a me?”, non parlava di sfortuna. Raccontava cosa vuol dire continuare a dare, anche quando la vita inizia a togliere.
Disse: “Non possiamo cambiare le carte che ci vengono servite, ma possiamo decidere come giocarle.” – guardando verso la platea di giovani ragazzi– e così fece: giocò con il coraggio, con la gratitudine, con una dolcezza che non sa di rassegnazione, ma di presenza piena.
Ripenso spesso a quelle sue parole. Perché nel suo racconto non c’era eroismo, c’era semplicemente verità. Una verità che spesso dimentichiamo: il tempo non va aspettato. Va onorato.
Eppure, la procrastinazione è un istinto umano fortissimo. Un rifugio raffinato in cui ci culliamo mentre la vita ci scivola accanto.
Non sempre è pigrizia. A volte è un modo per proteggerci da ciò che davvero desideriamo. Un tentativo inconscio di rimandare l’incontro con la nostra parte più viva.
Schopenhauer diceva che l’uomo è condannato a oscillare eternamente tra due stati: lo stress eccessivo e la noia. Nel mezzo, in quella terra di nessuno, si insinua il vuoto esistenziale. Quella sensazione di galleggiare in una vita che funziona, ma non vibra. Un’apatia silenziosa, spesso scambiata per normalità.
Viktor Frankl, psichiatra e sopravvissuto ai campi di concentramento, la descriveva come la perdita di senso. Non è dolore. È assenza. È un’esistenza che si spegne piano, senza fare rumore.
Una ricerca recente rivela che il 25% degli studenti europei e il 60% di quelli americani convivono con questo senso di vuoto. Una generazione che ha accesso a tutto, ma fatica a trovare un perché.
E allora sì, forse è per questo che la storia di Randy ritorna. Perché è una voce che spezza l’inerzia.
Lui ha scelto di parlare. Di dire “io ci sono” anche mentre tutto gli diceva che stava per andarsene.
Disse: “L’esperienza è ciò che ottieni quando non ottieni ciò che volevi.” – e aggiunse – “Mostrate gratitudine. Non lamentatevi. Siate buoni con gli altri.”
Non ha mai detto: aspettate il momento giusto. Anzi. Ci ha insegnato che il “momento giusto” è spesso un bambino dispettoso. Gioca a nascondino, ci attira con la promessa della perfezione, e poi ci intrappola nel suo formicaio di rimandi, dove ogni istante ha paura di essere quello sbagliato.
Ma vivere non è perfezionare. È manifestare. È rendere visibile ciò che siamo.
Randy non ha lasciato un testamento. Ha lasciato una direzione.
E io, ogni volta che parlo con qualcuno che trattiene una luce dentro, mi accorgo che quella direzione è ancora lì, in attesa di essere percorsa.
Non da lui. Da noi. E da te.
Sono Samuel Lo Gioco e qui esploro il legame tra psicologia positiva, leadership emotiva e work-life balance.
Attraverso storie, riflessioni e narrazione, ti accompagno in un viaggio di consapevolezza per riscoprire un modo più umano di vivere e lavorare.
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Giuseppe A. D'Angelo
28 Marzo 2025 13:17Molto di ispirazione, grazie.
Samuel Lo Gioco
29 Marzo 2025 09:00Giuseppe, grazie. Mi fa piacere che la sua storia possa essere ispirazione per molti.