Il sentiero, non il traguardo.
Sul metodo Geidō: non è una meta quella che cerchiamo, ma un modo di stare nel mondo che ci assomigli.
Non so esattamente quando ho cominciato a sentire una distanza tra ciò che ero e ciò che avevo sognato di diventare.
Non è successo all’improvviso, non c’è stato un grande evento a segnare il confine. Forse è successo e basta. In silenzio.
Durante un trasloco e una scatola mai più aperta, tra un taccuino con i bordi sciupati rimasto con le pagine bianche già da metà anno, o quella sensazione che ti prende mentre osservi qualcuno fare con passione qualcosa che tu hai smesso da tempo.
Non so a chi succeda davvero, ma so che a me è successo. Che certi giorni mi sono chiesto se era ancora possibile riallacciare il filo con quella parte di me che credeva di poter lasciare un segno, anche piccolo, purché fosse autentico.
Poi, un giorno, senza alcun motivo apparente, mi sono imbattuto in un concetto antico. Una parola che non conoscevo: Geidō.
È stata come una di quelle cose che non arrivano per spiegarti, ma per accendere qualcosa. Lì ho capito che forse, senza saperlo, l’arte della realizzazione non si impara per caso. Si percorre. Con lentezza. E a volte si riscopre quando ormai pensavi di averla perduta.
Cosa significa Geidō?
Sette secoli fa, in Giappone, nacque una via per apprendere qualsiasi arte. Dalla cerimonia del tè alla calligrafia, dal tiro con l’arco alla scultura, dalla poesia alla spada. Ma quella via, a ben guardare, non era solo un percorso tecnico. Era un modo per formare sé stessi. Per trasformare l’azione in un’educazione interiore.
Geidō, letteralmente, significa “la via dell’arte”.
Questo “metodo” si compone di tre fasi. Non tappe da superare, ma stati dell’essere che si ripetono ogni volta che cerchiamo di migliorarci davvero.
La prima fase è brutale nella sua onestà: dedizione totale.
Senza sacrificio, nessuna arte si rivela. E non parlo solo del tempo speso. Parlo del tempo donato. Quei giorni in cui ti alleni mentre gli altri dormono. In cui studi quando il resto del mondo scorre via.
Non si tratta di essere ossessivi, ma di riconoscere che ogni maestria, prima ancora di essere talento, è disciplina. È sudore che non si vede, fatica che non si mostra. Eppure, chi ha occhi attenti lo riconosce.
Il Geidō dice: l’eccellenza è figlia della ripetizione consapevole.
Come i samurai che lucidavano la lama ogni giorno, anche se non avrebbero combattuto.
Come il calligrafo che scrive cento volte lo stesso ideogramma finché non diventa respiro.
La seconda fase è l’imitazione. Ma non è quella che immaginiamo. Non è plagio, né adorazione. È un atto di umiltà.
Scegliere il miglior maestro. Guardarlo. Studiare ogni gesto, ogni esitazione, ogni silenzio. È come rubare con gli occhi, ma con rispetto. Con gratitudine. Perché non si impara da chi ci dà lezioni. Si impara da chi è diventato incarnazione vivente di ciò che insegna.
Mi viene in mente Isadora Duncan, pioniera della danza libera, che osservava le onde del mare per capire il movimento del corpo. O Bruce Lee, che imparava i colpi osservando gli animali e i fiumi.
Nel Geidō, il maestro non è un dio. È uno specchio. Serve a riflettere ciò che potremmo essere, se smettessimo di distrarci.
E poi, come terza e ultima fase, arriva la libertà.
Hai ripetuto, hai imparato. Ora devi dimenticare.
È la terza fase: lasciar andare il maestro per scoprire il tuo passo.
Qui nasce l’arte vera. Quando non ripeti più il gesto, ma lo reinveti. Quando non cerchi approvazione, ma autenticità.
È il momento in cui suoni con le dita che ti tremano, ma la melodia è tua.
In cui scrivi con parole imperfette, ma cariche di verità.
In cui sali sul ring, o su un palco, o semplicemente affronti una giornata, e sai che non sei più solo: sei tu.
Da attento ascoltatore mi è capitato di sentirmi ripetere le stesse frasi dette con sfumature diverse:
“Vorrei ma non so da dove iniziare.”
“Mi sento bloccato.”
“Ho talento, ma manca qualcosa.”
Eppure, quando tornano ad allenarsi, a seguire qualcuno, a perdersi nel fare — qualcosa si scioglie.
Forse ci siamo convinti che l’unico modo per realizzarci sia scalare?
Ma Geidō ci dice il contrario:
Che la maestria non è vetta, è sentiero.
Che non conta dove sei arrivato, ma chi sei diventato mentre ci provavi.
Che ogni gesto, se fatto con consapevolezza, può essere un atto di bellezza e trasformazione.
Come scrisse Yukio Mishima:
“Lo spirito non nasce dal successo, ma dalla costanza nel fallimento.”
E allora, forse, vale la pena ricominciare.
Da un gesto semplice. Da una dedizione piccola. Dalle parole di un maestro […]
Non per diventare artisti, ma per non smettere mai di essere apprendisti.
Sono Samuel Lo Gioco e qui esploro il legame tra psicologia positiva, leadership emotiva e work-life balance.
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