Edonica o eudaimonica: quale felicità ti rappresenta?

Edonica o eudaimonica: quale felicità ti rappresenta?

Tra Aristotele e il Cammino di Santiago: come ho smesso di inseguire la felicità e ho iniziato ad abitarla.

Per molto tempo ho pensato che la felicità fosse una questione di geometria: linee pulite, angoli giusti, equilibrio perfetto. Una cosa netta, senza sbavature. Come se potesse essere costruita a tavolino, se solo fossi stato abbastanza bravo, organizzato, impeccabile.

Così la rincorrevo. E più correvo, più lei sembrava spostarsi. Quando credevo di esserci, c’era sempre qualcosa che stonava. Una nota fuori scala. Un dettaglio che non coincideva con l’idea che mi ero fatto. E se non era come doveva essere, allora non poteva essere chiamata felicità.

Mi portavo dietro questo senso sottile di frustrazione, come quei sassolini piccolissimi che entrano nelle scarpe: fastidiosi, ma non abbastanza da fermarti. Così ti ripeti “al momento giusto lo tolgo”, e intanto continui a camminare. Avevo quasi tutto — eppure non bastava. Avevo confuso la felicità con il riconoscimento. Con la performance. Con l’approvazione. Ero talmente impegnato a costruire l’immagine della mia felicità, che non riuscivo a sentirla.

Poi è successo qualcosa. Nessuna epifania. Solo un lento scivolamento. Come quando inizi a vedere, da lontano, il profilo di una città in cui non sei mai stato, ma che in qualche modo riconosci.

Ho cominciato a notare il potere di certe emozioni piccole: un tramonto, le note di una canzone, il volto di qualcuno che guarda silenziosamente nel vuoto, fuori dal finestrino del tram.

Non era una felicità mozzafiato. Era una forma leggera, ma resistente. E soprattutto, presente.

Così ho cominciato a dilatarla. A non farla evaporare subito. E senza accorgermene, stavo cambiando forma anche io.

Ma il punto di rottura, quello vero, è arrivato nel 2019. Camminavo da settimane lungo il Cammino di Santiago. Due mesi, 1500 km, uno zaino sulle spalle e molte cose da mettere a terra, passo dopo passo.

I piedi erano gonfi, le vesciche gridavano, la schiena chiedeva pietà. La natura attorno regalava suoni delicati e armoniosi che conciliavano con lo scricchiolio dei sassi sotto i piedi mentre camminavo nella ghiaia di un sentiero indicato dalla freccia gialla.

Eppure qualcosa stava succedendo di diverso in me. Qualcosa si apriva. Giorno dopo giorno. Passo dopo passo.

Camminando, ho imparato a parlarmi. Non con la mente, ma con la voce. Cantavo. Ridevo. Mi dicevo cose ad alta voce.

A volte bastava un “ce la stai facendo” per ritrovare energia. Era una forma primitiva e sincera di dialogo interiore che la chiamai “arte della compensazione”: quando il corpo, per dolori e fatica, genera energia negativa, con la mente applico l’opposto per generare energia positiva a compensazione.

E solo dopo avrei scoperto che aveva una base scientifica: il linguaggio emotivo attiva aree cerebrali che stimolano la produzione di serotonina e ossitocina, modulando la percezione del dolore, della fatica, dell’umore.

Non lo stavo facendo per caso. Il mio corpo ne aveva bisogno. La mia mente lo stava imparando. Ed è lì che ho capito davvero cosa fosse la felicità.

Non quella che arriva quando tutto fila liscio. Ma quella che puoi coltivare anche nella fatica.

Non quella edonica, fatta di piacere, comfort, gratificazione. Ma quella eudaimonica, che nasce dalla coerenza tra ciò che sei e ciò che scegli.

Fu Aristotele il primo a distinguerle.

La felicità edonica (dal greco hedoné) è il piacere: l’attimo che appaga, il benessere immediato.

La felicità eudaimonica (eu-daimon) è la realizzazione della propria natura più autentica. Non dipende da quanto hai, ma da quanto sei in accordo con il tuo essere.

Lo psicologo Michael Steger, dell’Università del Colorado, ha mostrato che chi vive orientato al significato — più che al piacere — ha livelli più stabili di benessere a lungo termine.

Ed è Martin Seligman, padre della psicologia positiva, ad aver dato un nome a tutto questo. Nel suo modello PERMA, la felicità autentica è fatta di emozioni positive sì, ma anche di coinvolgimento, relazioni significative, senso e realizzazione.

Non si tratta di essere felici, ma di vivere in modo pieno.

Ecco cosa stavo facendo senza saperlo. Stavo passando dall’edonica all’eudaimonica. Da una felicità da inseguire, a una da abitare.

Una che non dipende più da chi mi guarda, ma da come mi sento quando nessuno mi guarda.

Oggi non mi interessa più apparire felice. Mi interessa esserlo, nei gesti piccoli. Nei momenti che non fanno rumore.

Mi interessa costruire un terreno fertile, e non aspettare che piova.

Non servono 1500 km a piedi per arrivarci. Ma serve sicuramente un primo passo.

Serve disimparare l’idea di felicità che ci hanno venduto.

Serve scegliere, ogni giorno, di sentirsi vivi. Anche nei giorni opachi. Anche nelle cose che non brillano.

Questa è la felicità che non si mostra. Ma che tiene.


Sono Samuel Lo Gioco e qui esploro il legame tra psicologia positiva, leadership emotiva e work-life balance.

Attraverso storie, riflessioni e narrazione, ti accompagno in un viaggio di consapevolezza per riscoprire un modo più umano di vivere e lavorare.

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