L’inclusione è un concetto o un’etichetta?
Quando la diversità diventa un requisito da dimostrare, l’inclusione si trasforma in un’etichetta.
C’è una scena che mi torna spesso in mente. Un vecchio film, non ricordo il titolo, ma il concetto era chiaro: un personaggio veniva accolto in un club esclusivo. Gli stringevano la mano con sorrisi compiaciuti, gli davano pacche sulle spalle, gli facevano sentire che “sì, adesso sei dei nostri”. Ma il suo sguardo era smarrito. Non si sentiva incluso, si sentiva esaminato. Tollerato. E questo fa tutta la differenza del mondo.
Quando parliamo di inclusione e diversità, non possiamo ignorare questa sensazione. L’inclusione vera non è una concessione. È un dato di fatto. Eppure, il mondo del lavoro continua a trattarla come un favore elargito a chi, secondo certe logiche, è “fuori dallo schema”.
⁉️ Ma se serve un programma per includermi, allora non lo sono mai stato davvero. ⁉️
Quando l’inclusione diventa branding.
Mi capita di leggere report aziendali in cui si elencano con orgoglio le “quote di inclusione raggiunte”, quasi come fossero premi da esibire in una teca. “Abbiamo assunto il 15% di candidati appartenenti a categorie protette”, “Abbiamo incrementato la presenza femminile nei ruoli dirigenziali”. Ma quando un diritto viene trasformato in un KPI aziendale, possiamo ancora parlare di inclusione?
Il romanzo Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter (consiglio di leggerlo) racconta in modo magistrale questo inganno. La protagonista, Cassie, lavora in una società, la Voyager, ossessionata dalla sua immagine. Una di quelle aziende che vogliono vincere premi, che vogliono essere riconosciute come “le più inclusive”, ma solo sulla carta.
Le assunzioni non avvengono per merito, ma per riempire caselle, per accumulare badge di “azienda etica”. Il problema? La diversità viene trattata come un trofeo, non come un valore. La differenza è sottile, ma devastante.
E non è solo finzione narrativa. Perché nella realtà accade lo stesso: se un’azienda ha bisogno di un “programma di inclusione” per assumere una persona disabile, una donna incinta, un uomo di un’altra etnia, un candidato LGBTQ+, significa che fino a ieri non avrebbe mai pensato di assumerlo senza quel programma? Se abbiamo bisogno di un piano per includere qualcuno, allora non lo stiamo trattando come parte naturale della società, ma come un’eccezione.
Nel momento in cui la diversità diventa uno strumento di marketing, la vera inclusione scompare. Perché chi entra in un’azienda grazie a un programma, a una quota, a una policy, sentirà sempre che il suo valore è stato in qualche modo “concesso”.
E allora non si tratta più di un diritto, ma di una tolleranza.
Di recente, molte grandi aziende – Meta, Google, Amazon – hanno smantellato i loro dipartimenti dedicati alla diversità e all’inclusione. Per alcuni, è stato un segnale di involuzione. Per altri, il segno che forse, dopo anni di retorica, ci siamo accorti che qualcosa non stava funzionando.
Perché abbiamo bisogno di un programma per includere qualcuno? Se un’azienda assume un candidato perché è competente, nessuno si pone domande. Se lo assume perché “rientra in un piano di inclusione”, il candidato stesso sarà il primo a chiedersi se davvero si meritava quel posto.
Forse il punto non è eliminare o mantenere i programmi di diversità. Forse il vero cambiamento sta nel non averne più bisogno.
Nel giorno in cui assumeremo una persona perché è brava, non perché “aggiunge valore alla nostra inclusività”. Nel giorno in cui non ci sarà più bisogno di etichette, perché il mondo avrà smesso di dividere le persone in categorie da proteggere.
Perché il problema non è la diversità. È il fatto che ancora oggi sentiamo il bisogno di farci caso.
Sono Samuel Lo Gioco e qui esploro il legame tra psicologia positiva, leadership emotiva e work-life balance.
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